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Gianfranco Trucchia
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Consulenza e società

Intervista a Gianfranco Trucchia


Gianfranco Trucchia
Il lavoro dell'Arte di Saveria Bologna

L'invito della tua ultima mostra, “Favole e Falsi”, riporta un insolito accenno biografico: “Gianfranco Trucchia è nato, prima o poi morirà, lavora, usa il colore e mette parole”. Volevi essere nuovamente provocatorio come sono state e sembrano tuttora le tue opere?

La pittura non ha senso. E solo un mezzo, un tentativo, una prova. Anche l'aspetto provocatorio che vi scorgi non è neppure intenzionale. In realtà io vorrei solo giocare con me stesso. Amo il colore, le superfici da colorare, amo sentire l'acquaragia l'olio e la tela sotto le mani; amo me stesso quando dipingo, se lo si può chiamare amore, non so.

E un amore ricambiato?

Mai, la pittura non ricambia mai in vita, in morte forse. Ma quando dipingo mi sento libero. Non uso pennelli ma solo le mani, lavoro solamente con le mani e purtroppo il diluente mi intossica e sto male.

Cosa vuoi esprimere col tuo lavoro?
E un contributo, un interpretazione del vissuto?


Non è mai un contributo! a niente e a nessuno, semmai è un furto! Anche se regalo uno dei miei tantissimi disegni rubo una parte del modo di vedere di chi lo riceve. E non voglio esprimere niente! Niente di niente di niente, assolutamente niente.
Ho ricominciato a dipingere dopo quasi venti anni di scultura perché volevo riprendere a giocare, anche se si tratta di giochi molto faticosi. Il tormento c'è in quanto si vive. Oppure il gioco è tormento e il tormento gioco. Qual e la differenza? Non esiste, l°unica è che nella vita ci sono degli obblighi mentre forse non dovrebbero esserci.

Anche negli anni '60 e '70 era un gioco?

No, prima era una professione e per questo stop. Il prodotto era solo commerciale, tutto quello che si faceva doveva servire a guadagnare nome e denaro secondo le regole del sistema.
Avevo impiegato dieci anni per farlo funzionare ma non mi ci ritrovavo più. Facevo pittura in maniera “corretta”, pensata, logica. Ero partito da un modo di lavorare prettamente ?gurale (o figu
rativo) poi passai ad un periodo astratto, o meglio informale e informal-materico. Hanno fatto seguito anni in cui mi sono liberato delle vecchie cose, ho fatto opere che erano inclusioni in materiale plastico cercando sempre materiali diversi. Dopo un breve periodo dada e concettuale penso di essere diventato. Gioco, non ho stili; non è pittura logica, non è geometrica ma non voglio
neppure che la si dica calda o fredda. È pittura e basta, solo questo.
Non posso parlare del significato o del contenuto dei miei quadri, sarebbe banale ed io non sono un pittore di moda. Parlo del colore e se si crede che il mio sia un rifiuto del messaggio pittorico, in verità non mi ci riconosco, ancora una volta, proprio perché la pittura, se mai volesse comunicare, non sarebbe un messaggio ma solamente (come sempre) un modo per vendere.

Eppure i tuoi quadri sono estremamente vitali, verbosi, popolati come un racconto.

Perché ho bisogno di compiere un'operazione ben precisa: riunire i miei simboli. La luna, il cavaliere, l”uccello della libertà, i divieti ed i loro contrari, il barcaiolo, il rapporto sessuale, le figure, la Maya desnuda. La luna è l'unica cosa che rappresenta l'irraggiungibile e il mistero, è la luna della favola e dei ricordi. La Maya desnuda è la donna rispettata e rispettabile, sempre nel suo splendore. Per me la donna è importantissima, più un tema e un riferimento che un simbolo, e l`affronto sempre in modo protettivo, io che sono l'attore quando dipingo, debbo proteggerla. Attraverso il colore, nel rapporto uomo-donna (che è sempre indiscutibilmente un rapporto di violenza) tento di lasciare affiorare l'aspetto energetico esistente tra due o più persone, la comunicazione. Il cavaliere è sicuramente un Don Chisciotte, un soggetto che “pretende”.

E un simbolo che ti è amico, una parte di te?

Temo di sì. Anche il barcaiolo è una sorta di Don Chisciotte. Anziché cavalcare con la lancia in resta naviga con il remo in mano. Non v”è differenza, l'uno in terra, l'altro in acqua.

Perché sopra o sotto il colore così caldo di alcuni quadri appaiono parti elettroniche o brandelli di rifiuti o materiali poveri?

Perché mi sembra una verità dei nostri tempi. Tentiamo di vivere ma ci troviamo sempre a dover fare i conti con realtà che non sono vivibili. Non si tratta però, nell'insieme, di una rappresentazione coerente del1'incoerenza attuale. Io non amo la coerenza. Uno dei pezzi del'ultima mostra era Il cestino che ha fatto l'uovo. Il cestino della carta, che stava per morire, è stato preso con cura, dipinto, decorato, dotato di una rete e di un occhio per vedere. Ed ha fatto l'uovo. Ha acquistato improvvisamente, attraverso il lavoro (qualcuno deve pur lavorare sulle cose finite!) un ruolo diverso ed una vitalità. L'assoluto contrario di quello che per sua natura può fare.

Scrivi anche poesie...

No, non faccio poesie, metto parole.

Esiste certamente una similitudine strutturale tra le due espressioni...

E sempre la ricerca di simboli che esistono (perché vivono e insistono nel consumo e nella vita quotidiana), ma per cercarne i contrari, per tentare di uscire dagli schemi. Io ci provo, non sempre mi riesce; e un lavoro faticoso, molto faticoso.
Io lavoro solo sui contrari. Esistono delle realtà che sono riscontrabili oggettivamente. Io cerco, devo, lavorare sui contrari, su quegli aspetti che nessuno vuole ammettere, che nessuno vuole. Credo che le parole si usino quando non si ha la capacità di usare le mani per dipingere. Le parole sono una fuga dal lavoro mentale e manuale. Possono anche divertire, diventare a loro volta un gioco, sempre seguendo la cadenza dei contrari.
Ascolta: “La porta aperta parlava di porte chiuse. La porta chiusa parlava parlava parlava” “La lampadina brillando di luce propria pensò: e se mi spengo?” “Un piccione morto parlando a suo padre dalla cabina telefonica dell'immondizia chiese: sarò lo spirito santo?” “Il coltello si mise a ridere. Si era reso ben conto di aver affettato accuratamente quasi più o meno i resti di un amante”.

Perché “Favole e Falsi" per definire quest'ultimo periodo della tua pittura?

Penso che oggi, con la cultura che abbiamo, assolutamente certificata, permettersi di fare pittura e stile (che è come far moda) sia solo una stupidaggine, non va bene. lo faccio cose che sono favole e falsi, sono racconti ma inevitabilmente rispecchiano la mia informazione e quindi la cultura della pittura di questo tempo, e sono falsi. Sono le mie storie unite ai falsi della cultura contemporanea.
Non penso più di dipingere per i contenuti, che debbono essere ovvi, certi, evidenti. ll mio modo di dipingere è solamente un modo per dire che è
dal colore che nascono i contenuti. E fondamentale: non esiste più l'arte, esistono le favole che abbiamo in testa ed i falsi che sono invece e purtroppo la derivazione delle cose degli altri che abbiamo visto. Conosco quasi tutta la pittura del mondo ed e inevitabile che mi vengano dei falsi. E molto difficile dipingere oggi.

Dal 1972 al 1990 hai lasciato da parte la pittura per fare solo scultura, prevalentemente in ceramica, senza mai esporre. Cosa rappresenta dunque la scultura per te?

E la mia grande passione. Deve vivere da sola, nel suo essere, non va confusa con le cose dipinte, fatte di colore. Con la pittura è facile incantare.
E un mondo diverso, fatto di ombre, un lavoraccio. La scultura raccoglie tutto ciò che ho pensato, reagito, consentito, accettato e forse vissuto. Quando è finita ogni rapporto è concluso, finito con la mia terra e le mie mani, finito con il mio modello. Di la ho una scultura in lavorazione da quattro anni e non la voglio terminare. La scultura e la fine della fine della fine.